Usucapione – Comune – aree adibite a parcheggio – ammissibilità – prova – difetto – reiezione della domanda – dicatio ad patriam – fattispecie - infondatezza

19.1.2022 – Corte di Appello di Ancona – Sent. 64/2022 Pres. Formiconi Est. Boiano

31/01/2022

(omissis) … “FATTO DI CAUSA Con sentenza n. 315/2015, pubblicata il 03/11/2015 (rg n. 1576/2009), il Tribunale di Urbino, nella persona del Dott. (omissis), rigettava la domanda proposta dal Comune di D, finalizzata a far dichiarare in suo favore l’esistenza del titolo di proprietà ovvero di servitù pubblica sull’area adibita a parcheggio distinta al F. (omissis) mapp.le (omissis) del medesimo Comune e, per l’effetto, a far acclarare che tale terreno è di proprietà esclusiva dell’ente attore per usucapione ovvero per l’uso pubblico a titolo di dicatio ad patriam dell’originario proprietario; condannava quindi il Comune a rimborsare le spese di lite in favore dei convenuti A e B. Premette il Tribunale che la servitù di uso pubblico e la servitù pubblica, benché entrambe contemplate dall’art. 825 c.c., differiscono tra loro in quanto il requisito della predialità connota esclusivamente la seconda che, pertanto, presuppone la relazione tra il fondo servente ed il fondo dominante “e, dunque, ricalca il modello di cui agli artt. 1027 c.c. e ss, caratterizzandosi per il fatto che il fondo dominante rientra tra i beni di cui agli artt. 822 e ss c.c.”; che la servitù ad uso pubblico, invece, postula unicamente un peso sull’altrui bene, strumentale al soddisfacimento di pubblici interessi “corrispondenti a quelli cui servono i beni demaniali”; che, nel caso di specie, il difetto della predialità rende configurabile una servitù ad uso pubblico di parcheggio che, stante la carenza del rapporto tra fondi, è sottratta dall’ambito delle servitù prediali e, pertanto, può costituirsi unicamente tramite la c.d. dicatio ad patriam e non può essere acquistata a titolo originario per usucapione; che la giurisprudenza di legittimità, tuttavia, è di segno contrario (Cass. 10772/2003; S.U. 20138/2011), avendo affermato come la carenza del requisito della predialità non costituisca un impedimento ma semmai un fattore di agevolazione all’acquisto a titolo originario delle servitù ad uso pubblico. Ciò premesso, osserva il Tribunale, aderendo al citato orientamento giurisprudenziale, che l’accertamento dell’uso pubblico deve essere rigoroso, dovendo accertarsi che tale uso sia stato effettuato da parte della collettività di individui, quali uti cives e non semplicemente uti singuli, che il bene sia oggettivamente idoneo a soddisfare il fine di pubblico interesse perseguito tramite l’esercizio della servitù e che l’uso si sia protratto per il tempo necessario all’usucapione (cita Cass. 11346/2004; 5312/1998); che l’accertamento dei presupposti necessari per l’usucapione della servitù ad uso pubblico deve essere rigoroso anche in ragione del fatto che, altrimenti, il relativo acquisto rischierebbe di tradursi in una sorta di espropriazione senza alcun ristoro patrimoniale per i proprietari; che, nella fattispecie, la difesa attrice non ha fornito adeguati elementi probatori a sostegno della sussistenza degli elementi necessari all’usucapione della servitù ad uso pubblico di parcheggio. Osserva, quindi, il primo giudice, con riferimento alle risultanze delle deposizioni testimoniali, che i testi V ed W hanno riferito fatti e circostanze soltanto a far tempo, rispettivamente, dal 2009 e 1995; che la teste Z, pur riferendo l’utilizzo dell’area come parcheggio dal 1982, non aggiunge circostanze idonee a far ritenere che la stessa e gli altri utilizzatori si relazionassero col bene uti cives e non uti singuli; che la stessa Z ha agito in giudizio ex artt. 700 e 702 cpc per tutelare una situazione possessoria vantata non in qualità di (ndr cittadina) ma come titolare dell’esercizio commerciale attiguo; che la Polizia Municipale, nella nota del 02.02.2010, conferma che Z, quale socio accomandatario della società esercente l’attività commerciale (omissis), fosse convinta che l’area fosse privata ed utilizzabile esclusivamente dai clienti del negozio, tanto che un dipendente di quest’ultimo collocò il cartello “parcheggio privato”, visibile nelle foto prodotte; che il teste X, pur dando atto dell’utilizzo dell’area come parcheggio dal 1982, ha specificato di aver appreso che le spese per realizzare le strisce delimitanti gli spazi per parcheggiare furono sopportate dal marito della Z, per cui non si è radicato in lui il convincimento della natura pubblica dell’area; che il teste K, pur dando atto dell’utilizzo dell’area come parcheggio dal 1982, non ha fornito circostanze idonee da far ritenere che gli utilizzatori si siano rapportati all’area uti cives e non uti singuli; che, infine, lo stato dell’area, in quanto separata dalla pubblica via da un marciapiede sormontato da transenna e siepe, si configura come superficie pertinenziale all’edificio ove è ubicato il negozio (omissis), con verosimile convinzione da parte degli utilizzatori che la stessa appartenesse al proprietario dell’edificio. Osserva inoltre il primo giudice, con riferimento alla domanda di accertamento della costituzione della servitù di uso pubblico di parcheggio per dicatio ad patriam, che, tenuto conto del principio giurisprudenziale a mente del quale la costituzione non può essere desunta dal solo fatto che il proprietario abbia consentito il passaggio pubblico su parte del proprio fondo (cita Cass. 4597/2012), nel caso di specie né i convenuti né il loro dante causa C hanno mai messo volontariamente e stabilmente l’area a disposizione della collettività; che risulta, invece, dai documenti prodotti, che C propose di cedere l’area ad estinzione integrale degli oneri di concessione, dunque come datio in solutum e in un’ottica di corrispettività, per cui la messa a disposizione della collettività dell’area, anche ove ravvisabile, non è stata né definitiva né continuativa ma semmai precaria e caducata allorquando il consiglio comunale rigettò per due volte la proposta; che non si comprende perché il C, pur dovendo pagare gli oneri di concessione, avrebbe dovuto mettere l’area definitivamente a disposizione della collettività; che il C, infine, prima di morire, transennò per due volte l’area, dimostrando così una volontà contraria alla c.d. dicatio ad patriam. Osserva, infine, il Tribunale, con riferimento alla circostanza che gli strumenti urbanistici avevano destinato l’area a parcheggio pubblico, che, a prescindere dall’accertamento condotto dal giudice amministrativo nel pendente ricorso, la previsione urbanistica, benchè pianificata dall’ente, non interferisce né con l’animo di coloro che hanno utilizzato l’area per parcheggiare, peraltro non come uti cives, né con la condotta del proprietario che ha affermato la sua proprietà in maniera inconciliabile con la c.d. dicatio ad patriam. Avverso l’impugnata ordinanza propone appello il Comune di D, deducendo i motivi di seguito riepilogati ed esaminati, riproponendo, in sostanza, le conclusioni del primo grado, compresa la richiesta di ammissione della Ctu al fine della individuazione dell’area. Con comparsa di risposta, depositata il 20/04/2021, si sono costituiti in giudizio A e B, contestando le motivazioni del gravame, per chiedere il rigetto dell’appello per mancanza di interesse ad agire dell’appellante, e comunque, perché inammissibile e/o infondato in fatto e in diritto con qualsiasi statuizione, valutando anche la temerarietà della lite con ogni conseguenza di legge ritenuta opportuna e con vittoria delle spese di lite. Con ordinanza del 17/02/2021 la Corte ha trattenuto la causa in decisione, assegnando alle parti i termini di cui all’art. 190 cpc. RAGIONI DELLA DECISIONE Con il primo motivo l’appellante censura la gravata pronuncia per errata valutazione dell’istituto dell’usucapione di servitù pubblica. Deduce, a tal fine, che la sentenza merita censura nella parte in cui (pag.4) osserva che l’acquisto per usucapione di una servitù ad uso pubblico rischia di tradursi in una sorta di espropriazione senza alcun ristoro patrimoniale, dimostrando così di confondere la differente acquisizione della proprietà “iure imperii”, attraverso la irreversibile destinazione del bene a servizio della collettività, rispetto alla diversa situazione nella quale la P.A. non abbia esercitato tale acquisizione utilizzando materialmente il proprio pubblico potere, come nel caso di specie; che, pertanto, sono state confuse le due fattispecie, l’una privatistica, ex art. 1158 c.c., e quella pubblicistica, disciplinata dal DPR 2001/327, con specifico riferimento all’art. 42 bis di tale norma, con conseguente erronea applicazione dei relativi principi; che, nella specie, non è stato dedotto né sussiste alcun atto acquisitivo o appropriativo, ovvero un intervento autoritativo del potere pubblico con intenti ablatori nei confronti del privato, ma, al contrario, un possesso protratto per oltre venti anni, utile ai fini dell’usucapione, del quale, anche dal punto di vista urbanistico, la P.A. si è limitata a prendere atto; che, in verità, l’area fu prevista a parcheggio pubblico già nel progetto presentato dal privato, cui fece seguito il rilascio della concessione edilizia n. (omissis) del (omissis) e succ. – Pratica edilizia n. (omissis) avente ad oggetto “costruzione edificio ad uso promiscuo” (residenziale e attività commerciale) nonché di parcheggio pubblico di circa 1000 mq; che l’opera, pertanto, fu voluta e realizzata dal privato, non già per atto autoritativo della PA., e destinata a parcheggio pubblico contestualmente all’edificazione dell’immobile, il cui uso si è protratto senza interruzioni almeno dal 1987 al 2009; che soltanto nel 2009 gli eredi di C hanno posto in essere il primo atto con cui chiesero al Comune di realizzare un parcheggio pubblico a pagamento dell’area, con divisione dei proventi. Il primo motivo è infondato e va dunque respinto. Un’attenta lettura della gravata pronuncia consente di evincere che il primo giudice, nell’aderire all’orientamento giurisprudenziale a mente del quale un’area privata può ritenersi assoggettata a servitù pubblica per usucapione (Cass. 10772/2003), ha correttamente osservato che l’accertamento dei presupposti necessari per l’usucapione di una servitù ad uso pubblico deve essere rigoroso, altrimenti il suo riconoscimento potrebbe costituire, in sostanza, uno strumento alternativo all’espropriazione senza alcun ristoro patrimoniale per l’espropriato. Nulla di più. Ciò detto, va altresì chiarito che C acquistò le particelle per cui è causa in data (omissis), ovvero quando le medesime, prima vincolate a “verde pubblico attrezzato”, erano già state destinate a “parcheggio pubblico”, precisamente con delibera del Consiglio Comunale dell’(omissis). Ne deriva che il C, nel richiedere la concessione edilizia per la realizzazione dell’immobile, aveva previsto la realizzazione del parcheggio pubblico in conformità alla destinazione già impressa dal Comune alle relative particelle, con l’intenzione di cederla successivamente alla pubblica amministrazione allo scopo di scomputare gli oneri di urbanizzazione della edificanda costruzione. La Giunta Municipale approvava la relativa convenzione, autorizzando il Sindaco p.t. alla sua sottoscrizione, ma il Consiglio Comunale non ha mai ratificato la convenzione, tanto che l’area occupata dal parcheggio è rimasta di proprietà di C e l’amministrazione comunale pretende ora di averne usucapito la servitù di parcheggio pubblico. Con il secondo motivo censura la gravata pronuncia per errata valutazione delle prove per testi, per violazione degli artt. 1158 e 2697 c.c. e per difetto ed irrazionalità della motivazione. Deduce, a tal fine, che quanto riferito concordemente da una pluralità di testi, peraltro conformemente alle risultanze documentali ignorate dal giudice, dimostra la fondatezza dell’azione, atteso che tutti hanno riferito sull’assenza di elementi inibitori alla facoltà di parcheggio per chiunque, senza alcuno specifico titolato o particolare scopo che distinguesse tale utilizzazione rispetto a quella uti singuli; che, infatti, quanto dichiarato dai testi V e W (dipendenti comunali), sebbene limitato nel tempo (dal 2005 al 2009 il primo e dal 1995 al 2009 il secondo), si riferisce a situazioni consolidate da tempo e conformi alla situazione descritta da parte attrice; che, quanto dichiarato dalla teste Z, sia in ordine alla reazione della stessa alla chiusura del parcheggio nel 1987 che all’apposizione di un cartello da parte di un dipendente del negozio nel 2009, è stato erroneamente interpretato, atteso che tra il 1987 ed il 2009 sono trascorsi ventidue anni, che il contenuto confessorio di circostanze in contrasto con il proprio diritto, liberamente addotte dal teste, in sede testimoniale, assumono valore rilevante anche ex art. 2730-2735 c.c. e, infine, che il contenuto delle affermazioni di tal S, peraltro “de relato”, acquisite al di fuori del processo, non possono contrastare con quanto riferito dal teste; che il teste X ha confermato che l’area è stata usata sempre come parcheggio dal 1980/1982; che il teste M, ex tecnico del C, ha confermato che nel progetto era previsto un parcheggio descritto come pubblico, dove lo stesso teste ha parcheggiato per andare in negozio; che, infine, il teste K (dipendente comunale dal 1983) ha confermato che l’area de quo era adibita a parcheggio pubblico dal 1984, la cui utilizzazione da parte dello stesso e di altri dipendenti comunali corrisponde ad un uso uti cives e non già uti singuli. Con il terzo motivo censura la gravata sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 1158 e ss, 99-100 cpc, difetto ed irrazionalità della motivazione. Deduce, a tal fine, di voler censurare quella parte della sentenza che ha ritenuto che lo stato dei luoghi non fosse sintomatico di un asservimento all’interesse pubblico, disattendendo peraltro, senza motivazione, la richiesta di Ctu; che, in verità, la ringhiera e la siepe sono stati collocati ab origine e costituiscono pertinenze del marciapiede d’uso pubblico, menzionato già dall’Anas (doc. 17-18 fascicolo Tar), così come è vero che l’area ha diretto e comodo accesso, senza soluzione di continuità, proprio dalla strada pubblica con la quale è a diretto confine; che nulla, del resto, avvalora l’opinione del giudice che gli utilizzatori dell’area abbiano agito nel convincimento della sua appartenenza al medesimo proprietario dell’edificio, mentre risulta l’esatto contrario dalla documentazione prodotta e le prove testimoniali raccolte; che, in conclusione, dall’esame degli atti e delle testimonianze rese risulta che sia certamente maturato il termine di prescrizione ventennale ex art. 1158 c.c., per cui si è costituito per usucapione in favore del Comune appellante il diritto di servitù pubblica sull’area adibita a sosta e parcheggio pubblico distinta al F. (omissis) mapp.le (omissis). Il secondo e terzo motivo, suscettibili di trattazione congiunta per evidenti ragioni di connessione, sono infondati e vanno pertanto respinti. La rivalutazione del materiale probatorio acquisito in primo grado, in particolare delle prove testimoniali, consente a questo giudice di confermare la gravata pronuncia in ragione del mancato raggiungimento della prova di un uso utile ad usucapire. Ed infatti, come già correttamente osservato dal primo giudice, i testi Z e X, pur parlando di area usata come parcheggio da tutti, a partire dal 1980/1982, non rivelano la convinzione che l’area in questione fosse pubblica, quanto piuttosto che si trattasse di un parcheggio utilizzato per lo più da coloro che erano diretti all’esercizio commerciale attiguo, di proprietà della stessa Z, la quale invocò per ben due volte la tutela possessoria contro il C, riconoscendo esplicitamente che ne avesse proprietà ed uso esclusivi, mentre non risulta che il Comune si sia mai opposto alle azioni di spoglio perpetrate dal nominato proprietario. X, titolare di un magazzino edile di fronte al parcheggio per cui è causa, ha tenuto a precisare che la propria clientela parcheggiava direttamente nel parcheggio della sua attività commerciale, a dimostrazione del fatto che il parcheggio in questione non fosse oggetto di un uso così diffuso tra i cittadini. Anche il teste M ha giustificato l’uso del parcheggio in questione con l’accesso al negozio ivi presente, pensando addirittura che la relativa area fosse divenuta di proprietà della Z, titolare del medesimo esercizio commerciale. Infine i dipendenti comunali, in particolare V e W, non hanno potuto riferire per un periodo valido ai fini dell’usucapione, avendo iniziato a lavorare per il Comune rispettivamente dal 1995 e dal 2005, mentre K, pur lavorando per l’amministrazione appellante dal 1983, ha confermato l’utilizzo dell’area come parcheggio, ad esempio da parte dei colleghi in quanto il Comune si trova nelle vicinanze, ma ha espressamente escluso di avere la certezza che l’uso sia stato reiterato senza interruzioni dal 1985 all’attualità. In conclusione, i testi ascoltati, peraltro esigui e tutti, ad eccezione di X, non completamente indifferenti alle parti in causa, non hanno fornito sufficienti elementi fattuali rivelatori di un uso generalizzato del parcheggio da parte della collettività indeterminata di individui, considerati “uti cives”. Le considerazioni che precedono sulle risultanze probatorie giustificano, di conseguenza, la mancata ammissione della Ctu, dovendo ritenersi inutile demandare ad un consulente l’attività di descrizione dello stato dei luoghi e di predisposizione dei frazionamenti catastali. Infine, va condivisa la gravata pronuncia anche con riferimento alla valutazione dello stato dei luoghi, atteso che le fotografie agli atti del giudizio raffigurano un’area che, sebbene con accesso diretto dalla pubblica via, si presenta come corte antistante il fabbricato edificato dal C e, in quanto tale, a servizio –almeno prevalente- dello stesso. Con il quarto motivo censura la gravata sentenza per violazione di legge e per difetto ed irrazionalità della motivazione nella parte in cui ha respinto la domanda subordinata di costituzione della servitù d’uso pubblico di parcheggio per dicatio ad patriam. Deduce, a tal fine, che il giudicante ha errato nel ritenere che il C non avesse messo l’area a disposizione della collettività, atteso che lo stesso spontaneamente presentò e sottoscrisse due progetti nel 1984-1985, conformi alla destinazione edilizia di PRG, autorizzati dalla P.A., con cui ha riconosciuto la destinazione dell’area a parcheggio pubblico, che il C ha volontariamente ed inequivocabilmente costruito e messo a disposizione della collettività il parcheggio de quo, che lo stesso è stato effettivamente utilizzato dalla collettività in modo continuo e pacifico quanto meno dal 1987 ad oggi; che anzi, nel caso di specie, i presupposti della costituzione della servitù in virtù della c.d. dicatio ad patriam si sono realizzati, anche per ammissione della stessa controparte che, nella nota del 22/04/2009, parla di “ … disponibilità a consentire l’utilizzazione pubblica del parcheggio, così come previsto dal PRG”. Il motivo è infondato e va dunque rigettato. Come sopra chiarito, il C aveva previsto la realizzazione del parcheggio pubblico in conformità alla destinazione già impressa dal Comune alle relative particelle, che avrebbe poi ceduto alla pubblica amministrazione allo scopo di scomputare degli oneri di concessione della edificanda costruzione. La Giunta Municipale approvava la relativa convenzione, autorizzando il Sindaco p.t. alla sua sottoscrizione, ma il Consiglio Comunale non ha mai ratificato la convenzione, tanto che l’area occupata dal parcheggio è rimasta di proprietà di C, il quale ha dovuto provvedere al pagamento del dovuto. Appare evidente, quindi, che la destinazione dell’area a parcheggio pubblico fosse subordinata alla stipula della convenzione, che non è mai intervenuta, e quindi al beneficio economico sopra detto, per cui la c.d. dicatio ad patriam non può essere desunta dall’originaria volontà del proprietario mai divenuta definitiva e nella quale difetta, in ogni caso, il carattere della continuità alla luce degli episodi di spoglio perpetrati dal C già dagli anni 1986/1987 nonché fino a poco prima di morire. Con il quinto motivo censura la gravata pronuncia per violazione di legge in relazione agli artt. 99-100 cpc, per difetto di motivazione e difetto di giurisdizione. Deduce, a tal fine, che l’acquisizione dell’area al patrimonio dell’ente a seguito di stabile erezione a parcheggio pubblico e pertinenza stradale, e dunque al demanio comunale in conformità alla destinazione urbanistica, spetterebbe al giudice amministrativo e, comunque, la relativa domanda non è stata formulata nel presente giudizio per cui il Tribunale, violando il principio della domanda, si è pronunciato statuendo il difetto di interesse in maniera ultronea; che, anzi, la destinazione impressa al bene, senza opposizione di alcuno, per oltre 20 anni, e conforme alla destinazione del bene, comprova la fondatezza della domanda. Anche l’ultimo motivo merita di essere respinto. Il giudice di prime cure, premettendo che sarebbe stato il giudice amministrativo a pronunciarsi sul relativo procedimento in corso, si è limitato ad osservare che, anche nel caso in cui si volesse condividere l’assunto attoreo per cui l’area sarebbe stata già attratta al patrimonio dell’ente in ragione della previsione urbanistica a parcheggio pubblico, le domande non potrebbero trovare comunque accoglimento, con inevitabile soccombenza del Comune, in ragione del fatto che la previsione urbanistica non interferisce né con l’animo di coloro che hanno utilizzato l’area per parcheggiare né con la condotta del proprietario e che sussisterebbe, in ogni caso, una carenza di interesse da parte del Comune, il quale, infatti, non potrebbe conseguire, all’esito dell’eventuale accoglimento, una utilità sostanziale maggiore. Il Tribunale, quindi, allo scopo di fornire una motivazione esaustiva, ha inteso replicare alle circostanze addotte dalla parte attrice a sostegno delle proprie domande ma nei limiti della loro rilevanza all’interno del thema decidendum oggetto del presente giudizio. L’appello va, in definitiva, respinto e le spese del grado, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza. (omissis)

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