Studio legale Valentini
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Pres. Trifone Est. Amatucci - Affitto di azienda – locazione di immobile - differenze
29/05/2012
“… alla domanda, portata alla cognizione del Tribunale di Pesaro, dalla Soc. A, di declaratoria di cessazione al 31.12.04 del contratto di affitto di azienda alberghiera relativo ad immobile sito in (omissis) ed intercorso con la Soc. B (“all’insegna Hotel Z”), quest’ultima contrappose l’esistenza di un contratto di locazione alberghiera con scadenza invece al 13.4.12 per effetto di rinnovo e, dedotte ingenti spese per acquisto attrezzature, manutenzione straordinaria e pubblicità, chiese in via principale il rigetto della domanda, ma pure, in via subordinata e per il caso di ritenuta esistenza di un contratto di affitto, la condanna di controparte al pagamento di una somma per l’avviamento commerciale ed il valore delle attrezzature presenti nell’albergo e non comprese nell’iniziale inventario. All’esito dell’istruttoria il Tribunale con sentenza n. 688/09 ritenne sussistente un contratto di affitto di azienda e condannò la convenuta al rilascio alla scadenza del 31.1.2010 ed al ripristino dell’immobile, ma, in parziale accoglimento della riconvenzionale, condannò la ricorrente al rimborso di € quale differenza tra le consistenze aziendali all’inizio dell’affitto ed alla sua scadenza. Appellò in via principale tale sentenza la Soc. B, dolendosi sia della qualificazione del contratto come affitto di azienda anziché locazione (mercè la corretta applicazione del D.L. 7 febbraio 1985, n. 12, art. 1, comma 9 septies, conv. Con mod. in L. 5 aprile 1985, n. 118, anche come interpretato da Cass. 29 settembre 1999, n. 10767: e tanto per avere essa iniziato per prima la gestione dell’Hotel Z non sussistendo alcuna attività imprenditoriale al momento della stipula del contratto di locazione) che della determinazione della differenza di valore degli arredi e dell’avviamento; per concludere per la declaratoria di scadenza al 13.4.12, o, in subordine, per la condanna di controparte al pagamento della somma di € a titolo di avviamento commerciale, oltre al valore di attrezzature ed arredi non inseriti nell’originario inventario. L’appellata resistette al gravame, il quale è stato deciso dalla Corte di Appello di Ancona con sentenza 10.6.10 n. 345, con la quale: sulla base dei criteri distintivi tra locazione di immobile destinato ad uso alberghiero ed affitto di azienda alberghiera (e, richiamata – tra le altre – Cass. 28 maggio 2009, n. 12543, in relazione al ruolo rispettivamente centrale o complementare dell’immobile nell’organizzazione dell’impresa del conduttore), ha valutato l’applicabilità della norma (di cui al D.L. 7 febbraio 1985, n. 12, art. 1, comma 9 septies, convertito con modificazione nella L. 5 aprile 1985, n. 118) per la quale “si ha locazione di immobile e non affitto di azienda in tutti i casi in cui l’attività alberghiera sia stata iniziata dal conduttore”: ha in particolare escluso l’applicazione della stessa: poiché l’attività di impresa alberghiera, benché rimasta sospesa dal luglio 1991 all’aprile 1994 e quindi al momento dell’inizio del rapporto, era stata a lungo fino a prima della sospensione esercitata nell’immobile dai precedenti affittuari, sicché non poteva ritenersi dissolto il precedente avviamento, neppure in presenza del cambio di insegna per la persistenza degli elementi oggettivi e comunque in ragione dell’ubicazione dell’azienda e del tipo di attività; ha qualificato inammissibile il secondo motivo di appello, nella parte relativa alla domanda di condanna di controparte al pagamento dell’indennità di avviamento come qualificata dal CTU, per mancata impugnazione specifica del relativo capo della sentenza di primo grado; ha rigettato il secondo motivo di appello, nella parte relativa alla richiesta di considerare, tra le consistenze, alcuni manufatti, non potendo la mera conoscenza di essi integrare l’espresso consenso scritto del proprietario richiesto dal contratto: e tanto per la ritenuta validità della clausola contrattuale che vietava innovazioni e trasformazioni senza il consenso scritto del proprietario e che escludeva ogni diritto a compensi per eventuali miglioramenti dell’avviamento e dell’arredamento e per eventuali aggiunte o migliorie arrecate all’azienda; …” ha pertanto confermato in toto la gravata sentenza, compensando peraltro le spese di lite del grado di appello; è stata poi gravata di ricorso per cassazione, articolato su due motivi, dalla Soc. B cui resiste con controricorso la Soc. A. motivi della decisione la ricorrente sviluppa due motivi e: con un primo motivo (rubricato “violazione o falsa applicazione di legge della L. n. 392 del 1978, art. 27 comma 3 e successive modifiche ed integrazioni di cui al D.L. 7 febbraio 1985, n. 12, art. 1, comma 9 septies, convertito con L. n. 118 del 1985 – in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”) essa invoca qualificarsi il contratto come locazione, in virtù della sola previsione normativa del presupposto dell’inizio dell’attività alberghiera da parte del conduttore, a prescindere da ogni indagine sulla intenzione delle parti contraenti o sull’obbiettiva consistenza dei beni dedotti in contratto; rimarca che, cessata ogni attività alla fine della stagione estiva 1990-1991 e rimasto inutilizzato per circa quattro anni l’immobile, solo all’esito di importanti interventi di ristrutturazione e trasformazione, comportanti anche il cambio di insegna e di classificazione alberghiera, l’attività era ripresa, ma su basi e caratteristiche completamente nuove; deduce di avere pertanto essa conduttrice intrapreso sostanzialmente ex novo l’attività imprenditoriale, non potendosi configurare una mera sospensione di quella precedente; lamenta la conseguente erroneità della sopravalutazione dell’ubicazione dell’immobile, pure riprendendo ed illustrando le considerazioni del CTU di primo grado – da cui si erano discosti i giudici dei gradi di merito – sull’intervenuta dissoluzione del precedente avviamento; con un secondo motivo (rubricato “omessa, insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio – art. 360, comma 1, n. 5”) essa lamenta non avere la corte di appello confutato partitamente le conclusioni del CTU di primo grado, che aveva escluso la sussistenza di un qualsiasi avviamento al momento dell’inizio del rapporto …”. …” per la configurabilità della locazione di immobile e destinazione alberghiera è necessario che il bene concesso in godimento assuma una posizione di assoluta ed autonoma centralità nell’economia contrattuale, secondo la sua consistenza effettiva e con funzione prevalente ed assorbente rispetto agli altri elementi che, legati materialmente o meno ad esso, assumono, comunque, carattere di accessorietà, rimanendo ad esso collegati sul paino funzionale in una posizione di coordinazione-subordinazione (Cass. 8 luglio 2010, n. 16138; Cass. 28 maggio 2009, n. 12543; Cass. 26 settembre 2006, n. 20815); del resto, il D.L. 7 febbraio 1985, n. 12, art. 1,m n. 9 septies, convertito nella L. 5 aprile 1985, n. 118, pone una presunzione di riconducibilità al tipo della locazione alberghiera dell’affitto di azienda alberghiera per il solo caso in cui il titolare dell’azienda l’abbia affittata per la prima volta, cosicché l’attività alberghiera venga ad essere inizialmente da parte del concessionario del godimento, con la conseguenza, una volta cessato l’originario rapporto e riacquistata la disponibilità giuridica dell’azienda nel suo complesso da parte dell’avente diritto, che la conclusione di un altro contratto, avente il medesimo contenuto e lo stesso soggetto di quello precedentemente risolto, non integra altra locazione di immobile a destinazione alberghiera, ma consiste in un affitto di azienda in tutte quelle ipotesi in cui, pur nella eventuale mutata consistenza dell’originario complesso aziendale, il valore aggiunto dell’avviamento continui ad essere la conseguenza dell’attività di impresa del primo conduttore (Cass. 27 marzo 2007, n. 7500); si rientra nella nozione di locazione di immobile quando l’azienda, iniziata da un precedente conduttore, abbia del tutto cessato di costruire una entità vitale: infatti, l’ipotesi che l’inizio dell’attività alberghiera ad opera del conduttore coincida con la prima destinazione in assoluto dell’immobile all’esercizio di un’azienda alberghiera non differisce, nella sostanza, dall’ipotesi in cui quest’ultima, già iniziata dal locatore o da terzi, si sia poi completamente dissolta, con la totale dispersione di tutti i suoi elementi costitutivi ed in primo luogo dell’avviamento, per essere stata poi, a distanza di tempo, ricostituita ex novo nello stesso immobile dal conduttore (Cass. 27 aprile 2001, n. 6088); invece, la figura dell’affitto di azienda ricorre sia quando il complesso organizzato dei beni sia dedotto nella sua fase statica, sia quando venga dedotto in quella dinamica: e, pertanto, non è rilevante che la produttività non sussista ancora, o abbia cessato di esistere per l’interruzione o la temporanea sospensione dell’esercizio dell’impresa (Cass. 5 gennaio 2005, n. 166; Cass. 28 marzo 2003, n. 4700), ovvero che al momento della conclusione del contratto il complesso organizzato dei beni non fosse in grado di funzionare per la necessità di una diversa e più efficiente organizzazione o dell’apporto di altri beni (Cass. 31 marzo 2007, n. 8076); costituisce poi apprezzamento di fatto, di norma incensurabile in cassazione in carenza di evidenti vizi logici e giuridici, quello compiuto sull’avvenuto inizio per la prima volta dell’attività alberghiera da parte del conduttore dell’immobile, ai fini della qualificazione del contratto come affitto di azienda o come mera locazione alberghiera (Cass. 8 luglio 2010, n. 16138; Cass. 26 settembre 2006, n. 20815; Cass. 20 aprile 2004, n. 7498); in applicazione di tali principi al caso di specie: - risulta incensurabile – per carenza di evidenti vizi logici o giuridici – in questa sede la complessiva valutazione, operata dalla corte territoriale (v. soprattutto pagine 11 e seguente della motivazione), della continuità dell’attività di impresa alberghiera prima, durante e dopo la pur non breve sospensione (almeno due anni e mezzo, discordando sul punto le versioni delle parti), essendo stata quest’ultima chiaramente valutata come finalizzata all’adeguamento delle strutture immobiliari, al successivo conseguimento di una migliore classificazione e quindi alla ripresa della medesima attività di impresa esercitata in quel medesimo immobile, in condizioni che si giovavano intrinsecamente di un miglioramento di quelle preesistenti; adeguamento integrato con tali elementi, pure evidenti dal contesto in concreto valutato, il risalto pressoché esclusivo dato nella gravata sentenza al mantenimento dell’ubicazione dell’immobile (effettivamente, di per sé neutro, attesa la normalità della persistenza di una ubicazione per un bene per definizione non amovibile) giustifica la conclusione dell’esecuzione del totale dissolvimento dell’azienda, sono idoneo a giustificare l’inquadramento della successiva ripresa dell’attività come un impianto ex novo. Il secondo motivo è inammissibile, per almeno due gradati ordini di ragioni: in primo luogo va ricordato (giurisprudenza fermissima; per tutte: Cass. 6 marzo 2008, n. 606+4; Cass. Sez. un., 21 dicembre 20098 n. 26825; Cass. 26 marzo 2010, n. 7394) che il vizio di omessa od insufficiente motivazione, denunciabile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 cod. proc. Civ., n. 5, sussistente solo quando nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile una obiettiva deficienza del criterio logico che lo ha condotto alla formazione del proprio convincimento, mentre il vizio di contraddittoria motivazione presuppone che le ragioni poste a fondamento della decisione risultino sostanzialmente contrastanti in guisa da elidersi e da non consentire l’individuazione della ratio decidendi, e cioè l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione adottata; questi vizi non possono consentire nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, spettando solo a detto giudice individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge in cui un valore legale è assegnato alla prova; nel caso in esame, la motivazione pienamente sussistente ed è ampia e coerente, suffragata da argomenti in fatto e in diritto idoeni anche a giustificare la non condivisione delle conclusioni del consulente, evidentemente censurando la ricorrente soltanto il risultato del percorso logico argomentativo seguito dal giudice di merito; ma un vizio di motivazione non può consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perché non ha la Corte di Cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, essendo invero la valutazione degli elementi probatori attività istituzionalmente riservata al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se non sotto il profilo della congruità della motivazione del relativo apprezzamento (tra le molte, V. Cass. 17 novembre 2005, n. 23286, oppure Cass. 18 maggio 2006, n. 11670, oppure Cass. 9 agosto 2007, n. 17477; Cass. 23 dicembre 2009, n. 27126; Cass. 18 marzo 2011, n. 6288); in secondo luogo: nella stessa impostazione della doglianza non è consentito dolersi della mancata presa di posizione specifica, da parte del giudice di appello, avverso le argomentazioni svolte dalla consulenza tecnica di primo grado già disattesa dal giudice di prime cure, dovendo semmai prospettarsi un vizio di motivazione nella reiezione degli eventuali motivi di doglianza addotti dalla ricorrente (e giammai potendo risolversi nella mera riproposizione di tesi già criticamente valutate e disattese, ma necessitando di analitiche censure sugli argomenti adoperati per discostarsi dalle risultanze della consulenza di ufficio): i quali motivi di doglianza di parte però dovevano, in ossequio al principio di necessaria autosufficienza del ricorso (in forza del quale è necessario che il ricorso stesso contenga tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo soggetto, di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle specifiche argomentazioni della sentenza impugnata, senza la necessità di accedere ad altre fonti ed atti del processo, ivi compresa la sentenza stessa: tra le tante, v. Cass. 9 giugno 2011, n. 12713, oppure Cass. 4 aprile 2006, n. 7825), essere trascritti integralmente nel ricorso, con precisa indicazione della sede processuale in cui erano ritualmente e tempestivamente sviluppati; la mancanza di analitica indicazione di tali specifici ulteriori motivi nel corpo del secondo motivo di ricorso e di indicazione della relativa sede processuale di formulazione rende la relativa doglianza inammissibile. Il ricorso – inammissibile essendo tutti i motivi – va pertanto rigettato (poiché, in materia di impugnazioni civili, la prospettazione di motivi non consentiti, pur rendendo inammissibile la censura, comporta il rigetto, e non già l’inammissibilità, del ricorso epr Cassazione: Cass. 22 maggio 2006, n. 11938)