Trib. Urbino, Sent. n. 341 - Est. Spaziani

Pubblico impiego- Idoneità al servizio

18/12/2004

Il Prof. X conveniva in giudizio la scuola secondaria, Centro Servizi Amministrativi della Provincia di X e l’Asur di X deducendo che in qualità di docente di scuola secondaria aveva prestato servizio, sulla base di un contratto a tempo indeterminato, come insegnante. Il ricorrente dopo essere stato colpito da sindrome ansioso-depressiva trattata farmacologicamente, a seguito di giudizio di inidoneità temporanea all’insegnamento per due anni (espresso dalla ASL) aveva stipulato con la scuola un contratto che prevedeva la sua temporanea utilizzazione in altri compiti presso il medesimo istituto, con possibilità di proroga del contratto a seconda del permanere dell’inidoneità. Tale contratto era stato prorogato fino al 2004 sulla base di ripetuti giudizi di inidoneità temporanea da parte della ASL. Nel Maggio 2004 la commissione Medica dichiara l’inidoneità permanente all’insegnamento del ricorrente, il quale chiede come domanda principale la reintegrazione nelle originali mansioni di docente, in subordine la reintegrazione nelle mansioni assunte in seguito al contratto di lavoro del 14.07.1999. Nel corso della lite veniva espletata CTU che dimostrava come il ricorrente fosse idoneo ad espletare le funzioni di insegnante. Il Tribunale di Urbino condannava l’istituto comprensivo Statale, nonché il Centro Servizi Amministrativi di Pesaro e Urbino a reintegrare Caio nelle mansioni di docente espletate presso il predetto istituto sino al giorno 10 giugno 1999, con decorrenza dal 1 gennaio 2005. Merita particolare rilievo la parte di motivazione della sentenza che segue: “Occorre anzitutto procedere alla esatta qualificazione della domanda con la quale si è invocato, tra l’altro, la disapplicazione “… degli atti … della Commissione medica della ASL del CSA del provvedimento del Capo di Istituto di tutti gli atti consequenziali … . “Al riguardo va premesso che, ai sensi dell’art. 68, comma 1, D. Lgs. N. 29/1993 (oggi l’art. 63 D. Lgs. n. 165/2001), sono devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, ad eccezione di quelle relative ai rapporti di lavoro di cui al comma 4, incluse le controversie concernenti l’assunzione al lavoro, il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali e la responsabilità dirigenziale; nonché quelle concernenti le indennità di fine rapporto, comunque denominate e corrisposte, ancorché vengano in questione atti amministrativi presupposti. Quando questi ultimi siano rilevanti ai fini della decisione, il giudice li disapplica se illegittimi. L’impugnazione davanti al giudice amministrativo dell’atto amministrativo rilevante nella controversia non è causa di sospensione del processo. Ai sensi del comma 2 del medesimo articolo, il giudice adotta nei confronti delle pubbliche amministrazioni tutti i provvedimenti di accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati. Tale ultima norma va coordinata con quella che prevede l’applicabilità ai rapporti di lavoro dei pubblici dipendenti delle disposizioni del capo I titolo II, del libro V del codice civile e delle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa (art. 2, comma 2, D. Lgs. n. 29/1993, oggi art. 2 D. Lgs. n. 165/2001) e con quella che attribuisce all’amministrazione i poteri del privato datore di lavoro (art. 4, comma 2, D. Lgs. n. 29/1993, oggi art. 5 D. L.gs n. 165/2001). Alla luce di queste disposizioni deve distinguersi, nell’ambito dei provvedimenti adottati dall’ente nei confronti dei suoi dipendenti, tra atti intermedi o presupposti (i quali, inserendosi nel procedimento di formalità della volontà dell’ente, costituiscono il presupposto dell’atto direttamente lesivo del lavoratore), e atti finali (direttamente identici sulla posizione lavorativa). Per quanto concerne il primo (si pensi, per esempio ad un provvedimento di variazione della pianta organica che determini un trasferimento di un dipendente, oppure ad un atto di organizzazione che comporti un mutamento di mansioni), non vi è dubbio che essi presentino caratteri autoritativo-discrezionali, e siano pertanto idonei a degradare la posizione soggettiva del privato prestatore di lavoro da diritto soggettivo ad interesse legittimo. Tali atti, infatti, ove ritenuti illegittimi – per incompetenza relativa, violazione di legge od eccesso di potere – potranno essere impugnati dinanzi al giudice amministrativo (anche se la validità dell’atto presupposto non darà mai luogo ad una questione pregiudiziale amministrativa da decidere con efficacia di giudicato, in quanto la predetta impugnativa non sarà causa di sospensione del processo dinanzi al giudice del lavoro) e potranno essere oggetto di disapplicazione da parte del giudice del lavoro se rilevanti ai fini della decisione della controversia (senza che possa profilarsi un pericolo di contrasto tra giudicato civile e giudicato amministrativo, in quanto la disapplicazione del giudice del lavoro, avendo carattere meramente incidentale, non potrà avere una simile efficacia in ordine alla validità dell’atto). Con riguardo invece agli atti (finali) che incidano direttamente sulla sfera giuridica del dipendente (ad es. l’atto che ne preveda il trasferimento, o il mutamento di mansioni, o che stabilisca la cessazione del rapporto) deve escludersi ogni connotazione autoritativa o discrezionale, in quanto il giudice del lavoro può adottare nei confronti dell’ente “tutti i provvedimenti, di accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati” (art. 68, comma 2 cit.). Da tale fondamentale premessa derivano diverse conseguenze: in primo luogo la pubblica amministrazione, nel momento in cui emana atti (finali) che incidono direttamente sul rapporto di lavoro non opera come “pubblica autorità”, ma come parte contrattuale di un rapporto fondato su base paritetica, che agisce con i poteri del privato datore di lavoro (art. 4 D. Lgs. cit.). In secondo luogo i predetti atti non sono qualificabili come provvedimenti amministrativi, ma come atti negoziali unilaterali o atti di gestione, (secondo la definizione datane da una parte della dottrina) che si inseriscono nella dinamica del rapporto contrattuale. In terzo luogo, allorchè dall’esercizio dei poteri della pubblica amministrazione – datrice di lavoro il privato – il prestatore lamenti una indebita lesione della sua sfera giuridica, la posizione soggettiva lesa non potrà mai essere qualificata come mero interesse legittimo, ma sempre come diritto soggettivo, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2907 c.c. (sul punto v Cass., Sez. un., 24 febbraio 2000 n. 41/SU, in Foro it. 2000, I, 1483). In quarto luogo, infine, la giurisdizione del giudice del lavoro non incontra il limite di cui all’art. 4 L. 20 marzo 1865 n. 2248 all. e, in quanto non si tratta di una giurisdizione sull’atto (eventualmente culminante in una pronuncia caducatoria di un provvedimento amministrativo), ma di una giurisdizione sul rapporto (volta alla tutela dei diritti attraverso pronunce di accertamento, costitutive o di condanna sul punto cfr. Corte Cost. 5-23 luglio 2001). Tanto premesso in generale, è agevole, rilevare, nel caso di specie, che gli atti di cui si chiede la disapplicazione, in quanto incidono direttamente sulla sfera giuridica del lavoratore, si inseriscono nella categoria descritta dagli atti finali, ed assumono pertanto, non già la natura di atti amministrativi, ma quella di atti negoziali di gestione, analoghi a quelli che possono essere posti in essere da un datore di lavoro privato” … .

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